“Best practice”, un
termine che all’inizio degli anni Novanta attirava sempre più interesse attorno
al mondo della ricerca, è diventato oggi un termine spesso abusato, quasi un cliché. Di fatto, come spesso accade,
l’abuso di una terminologia può condurre a risultati che spesso allontanano dal
suo significato originario.
Sfogliando le
pagine dei motori di ricerca troviamo centinaia di definizioni di “best
practice” più o meno simili fra di loro. Tuttavia, molte definizioni enfatizzano
solo la capacità di questa buona pratica di produrre risultati “migliori”, senza
considerarne l’ambito spazio-temporale (ovvero dove nascono queste pratiche).
In altre parole, spesso si considerano come “best” delle pratiche che possono
essere usate come benchmark e possono essere replicate ovunque. E questo è
l’errore più grande.
Difatti, bisogna sempre ricordare che la pratica migliore
è “una procedura o un set di procedure che sono migliori o da considerare uno standard
all’interno di una organizzazione,
azienda, ecc…” (tradotto da Dictionary.com). A tal riguardo, sebbene talune
pratiche possono avere maggiore successo di altre, tale successo è maggiormente
correlato alle caratteristiche del contesto all’interno del quale le pratiche
vengono adottate, piuttosto che riconducibile alla mera capacità dei manager di
adottare tali riforme.
Infine, come
ricorda Robert B. Behn (Harvard University) in un Public Management Report del
2006, se le pratiche migliori sono replicabili ovunque, i manager non avrebbero
più bisogno di “pensare”, ma solo di copiare quello fatto da altri. Mentre la
vera sfida è studiare a fondo la propria organizzazione, capirne i punti di
forza e di debolezza e analizzare il contesto di riferimento e capire come
l’organizzazione deve evolvere ed innovare per sopravvivere.
Alessandro Braga
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