venerdì 22 gennaio 2016

L’OSSESSIONE PER LE "BEST PRACTICES": ALCUNE RIFLESSIONI (A. Braga)

“Best practice”, un termine che all’inizio degli anni Novanta attirava sempre più interesse attorno al mondo della ricerca, è diventato oggi un termine spesso abusato, quasi un cliché. Di fatto, come spesso accade, l’abuso di una terminologia può condurre a risultati che spesso allontanano dal suo significato originario.

Sfogliando le pagine dei motori di ricerca troviamo centinaia di definizioni di “best practice” più o meno simili fra di loro. Tuttavia, molte definizioni enfatizzano solo la capacità di questa buona pratica di produrre risultati “migliori”, senza considerarne l’ambito spazio-temporale (ovvero dove nascono queste pratiche). In altre parole, spesso si considerano come “best” delle pratiche che possono essere usate come benchmark e possono essere replicate ovunque. E questo è l’errore più grande. 

Difatti, bisogna sempre ricordare che la pratica migliore è “una procedura o un set di procedure che sono migliori o da considerare uno standard all’interno di una organizzazione, azienda, ecc…” (tradotto da Dictionary.com). A tal riguardo, sebbene talune pratiche possono avere maggiore successo di altre, tale successo è maggiormente correlato alle caratteristiche del contesto all’interno del quale le pratiche vengono adottate, piuttosto che riconducibile alla mera capacità dei manager di adottare tali riforme.

Infine, come ricorda Robert B. Behn (Harvard University) in un Public Management Report del 2006, se le pratiche migliori sono replicabili ovunque, i manager non avrebbero più bisogno di “pensare”, ma solo di copiare quello fatto da altri. Mentre la vera sfida è studiare a fondo la propria organizzazione, capirne i punti di forza e di debolezza e analizzare il contesto di riferimento e capire come l’organizzazione deve evolvere ed innovare per sopravvivere.

Alessandro Braga



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